Il 1988 fu l’anno del delitto eseguito dal cosiddetto Canaro di Roma, che si vendicò delle vessazioni subite da un ex pugile tossico, uccidendolo senza pietà dopo notevoli e crudeli torture.
Dogman rivisita la storia riscrivendo alcune parti della vicenda, poetizzando gli aspetti umani dell’omicida e ambientandola in una borgata romana al di fuori del tempo e dello spazio.
Garrone non emette giudizi sull’efferato delitto, ma indaga sugli aspetti umani e psicologici del rapporto morboso di vittima-carnefice che si era creato tra il Canaro e il tossico.
Cosa spinge un uomo per anni succube di un piccolo delinquente di quartiere a reagire così ferocemente? E’ troppo semplice parlare di vendetta morale. Chi vive in quartieri così duri ha la vita segnata da inevitabili soprusi e angherie, ma non tutti coloro che nascono in quelle zone sono capaci di reagire o di porre limiti alla malavita.
Il miraggio di un miglioramento spinge molti disperati o semplici cittadini-vittime a non reagire mai e a sopportare all’infinito i vessatori, tacendo come l’omertà comanda. Il Canaro è questo tipo di persona, debole, insicuro e ingenuo. Anche in quegli ambienti così ostici l’amicizia è importante e così una versione grottesca e distorta della Sindrome di Stoccolma agisce nei rapporti umani. Essere riconosciuti e considerati spinge le persone a sopportare qualsiasi affronto pur di essere parte di un gruppo. Il Canaro si accolla anche una pena carceraria per difendere il presunto amico, ma quando chiede, giustamente a suo parere, parte della refurtiva per cui si è sacrificato, viene deriso e malmenato ancora una volta.
Il carcere duro, però, lo ha forgiato e lo ha reso determinato e crudele. L’aura di ingenuo è svanita ed è emerso l’uomo dietro la maschera.
Con una scusa il Canaro chiama l’ex pugile nel suo negozio e lo sevizia fino alla morte. Ottenuta giustizia il Canaro, però, è rimasto solo. Quella forma abominevole di “amore” che aveva tanto sofferto ora non c’è più.
Qualcuno ha detto che la vendetta è un piatto che va servito freddo, ma nessuno dice che ti lascia l’animo macchiato di sangue e rancore. Il Canaro scopre sulla sua pelle la solitudine e l’abbandono.
Questa storia rivive con grande poesia e finezza visiva, nonostante la violenza perpetua ed esplicita, cambiando i nomi e i connotati ai vari personaggi. Il luogo, tutt’altro che ameno, fa da sfondo e da cornice all’inferno della coppia che vive sperando che qualcosa succeda, ma che non fa niente perché accada veramente.
Tanta disperazione conduce ad una vita sempre al limite della legalità e della morte dove ogni azione, anche la più disperata e immonda, non ha più valore.
Garrone riprende le atmosfere dark del suo Imbalsamatore e le unisce a quelle ciniche e di frontiera di Gomorra per comporre un quadro che si addentra nei lati oscuri del cuore di ogni uomo vittima di abusi. Garrone ci mostra che vittima e carnefice, certe volte, sono inscindibili e che il vessato è a sua volta boia e che il vessatore è spesse volte preda.
I ruoli, nella vita così come nelle fiabe nere, non sono definiti come sembrano. Per quanto assurdo possa sembrare, questa storia parla di amore, di amore malato, maledetto e non ricambiato.
Come diceva David F. Wallace “ogni storia d’amore è una storia di fantasmi…”.
Bisogna rendere merito a Garrone di saper estrarre dall’humus territoriale in cui lavora talenti recitativi della qualità di Marcello Fonte che si è immerso nella parte del Canaro con grande emotività e abilità.
Una storia sconvolgente che vi farà saltare il cuore nel petto.
Voto 4/5
Ramsis Bentivoglio